Nell’ultimo tragitto dal lavoro – ora sospeso, come tutto – verso casa attraverso il centro di Roma. Tengo una mascherina in tasca, non la indosso, mi porto, come un gesto di contrabbando, la mano verso la tasca se vedo avvicinarsi una macchina della polizia o un’ambulanza. Solo loro attraversano la città, insieme a pochi pedoni sperduti. Avanzano a tentoni, come omini usciti di casa per camminare nella nebbia. Ma nebbia non ce n’è, si vede tutto benissimo: il cielo, il sole, i palazzi, i monumenti, le fontane, i gabbiani affamati, l’eternità delle rovine che eravamo e che saremo. Roma che sa essere straziante nei giorni ordinari, può rivelarsi consolante nei giorni tragici. Ogni cosa qui sussurra agli uomini che nessuno di loro è indispensabile. Mi aggiro come un fantasma nella mia città che all’improvviso si fa straniera. Percorro le strade come sorvolando la vita com’era, come non è più: il vicolo diedi quel primo bacio, il palazzo del mio vecchio lavoro, la piazza dove mi trovai nella calca di gente felice e sudata anche se protestava, il bar dove ci incontravamo salutandoci con due baci sulle guance ogni mattina, la scalinata dove scappai impaurito e inseguito, la panchina di una notte felice, il tram di mille ritorni. Ognuno di noi è un’isola, finalmente, ma senza più traghetti verso la terraferma. Sul primo gradino della scalinata di Trinità dei Monti c’è un uomo sulla cinquantina, in giacca e cravatta, urla circondato da vigili urbani, tutti al fatidico metro di distanza. “Io voglio dire la verità cazzo, posso almeno dire la verità?”. Questa voce arrabbiata, disperata, esaurita graffia quella pellicola trasparente, sottile, fragile che avvolge tutta la città e ognuno di noi, senza sapere quanto potrà reggere.
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